Flavio Giurato – Marco Polo

“Volevo essere un tuffatore
per rinascere ancora
dall’acqua all’aria”

Era il 1982, l’Italia vinceva ai mondiali e le solite stronzate a cappello della recensione che troverete nelle altre recensioni dei dischi di Flavio Giurato. Ma c’è da capirli: offrono una panomoramica sul contesto storico che di fatto nascose queste musiche, questa scintilla di tre dischi (“Per futili motivi” del 1978, “Il Tuffatore del 1982 e “Marco Polo”, appunto, del 1984), che passò quasi inosservata.
Si dice che l’arte nasca sempre da una ferita. Flavio Giurato dopo aver cantato le sue ferite con un orgoglio smisurato, una smisurata follia cantautoriale che lo rende unico, in “Per futili motivi”, il più introverso e il meno imperdibile dei tre dischi citati, aver poi fatto di questa ferite una propria teoria poetica ne “Il Tuffatore”, con la titletrack, una delle migliori canzoni del cantautorato italiano tutto, e lo straziante ritratto d’amore e umore estivo dell’uno due “Orbetello”/”Orbetello ali e nomi”, ha concluso, nostro malgrado, il trittico con l’esercizio estremo di tale tensione espressiva, costruendo un’epica cantautorale della ferita, esercitandosi pubblicamente con la figura, la vita, il viaggio epico di Marco Polo, durato trentasei anni.
Flavio Giurato si chiuse in un silenzio musicale di oltre quindici anni, per poi tornare a pubblicare un album nel 2007, “Il manuale del cantautore”, anticipato da una serie di concerti che ne inaugurarono la rinascita artistica.

Dall’incipit de “Il Milione”: “Signori imperadori, re e duci e tutte altre genti che volete sapere le diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo libro dove le troverrete tutte le grandissime maraviglie e gran diversitadi delle genti d’Erminia, di Persia e di Tarteria, d’India e di molte altre province. E questo vi conterà il libro ordinatamente siccome messere Marco Polo, savio e nobile cittadino di Vinegia, le conta in questo libro e egli medesimo le vide. Ma ancora v’à di quelle cose le quali elli non vide, ma udille da persone degne di fede, e però le cose vedute dirà di veduta e l’altre per udita, acciò che ’l nostro libro sia veritieri e sanza niuna menzogna”

“Marco Polo è un bimbo ma non così piccino
Marco Polo è il vento che spinge il suo cammino”

Questi sono i “Punti Cardinali” che fissano la vicenda, l’incipit d’un viaggio che inizia già a terra, a Venezia, e con cui inizia anche il disco di Flavio Giurato. Un lento ondeggiare, da porto nelle prime luci del mattino, di chitarra acustica e poco piano, un lamento “fetale” inaugurano i suoni destinati ad incresparsi come onde con l’ingresso del cantato e dell’elettrica, l’arrivo di Marco al molo, lo schiudersi del giorno.

“Marco Polo aspetta il padre, va tutti i giorni al molo
e sente i viaggiatori e sente i pescatori
li sente e li risente raccontare”

Marco è escluso dalla vita e dai viaggi del padre e lo zio, commercianti con l’Asia. poi partirà “per motivi di cuore e verrà un suo amico”. Marco Polo è uno dei nuovi marinai cantati nella seguente frase che, come altre nel disco e nella discografia di Giurato, vengono ripetute ossessivamente, traduzione d’una visione estatica col dono di ripetersi ad ogni nuovo sguardo, o ad ogni nuova declamazione della frase.

“I nuovi marinai già tirano le funi”

Marco ha diciasette anni e prende la via del mare, così come “Le Funi” fa definitivamente uscire dal molo la nave musicante dell’album in questione. Siamo in mare aperto, un basso respira inserendosi tra le linee pianistiche ed elettriche che ispirano il viaggio, respira come Marco Polo a prua, curioso di veder terra, annunciarla al padre e allo zio, scendere con essi e la nave sussulta con la batteria, si levano arie in sottofondo come  venti marittimi, a donar liricità all’impresa, leggerezza, senso intimo al viaggio.

“E vele e mare
e vele e mare
e vele e mare…”

E il senso del viaggio che si ripete, l’indistinguibilità del mare aperto, che ripete se stesso in ogni direzione, è testimonata da “Vele e Mari”, che prende il timone del pezzo precedente e lo conduce verso una partitura più incalzante, mossa, e decisamente progressive.

“La provvidenza è vestita come un attore americano
e Marco destinato a ritornare andrà avanti”
(…) e il nuovo dio che è incoronato
e il nuovo dio che adesso apre all’Oriente
e Marco Polo e il vento nel culo dei cavalli vola”

“La Provvidenza” apre con un desertico arpeggio per chitarra e armonica, Giurato declama la prima poesia in viaggio della prima parte del disco, la cosiddetta “Teoria dell’orientamento”, tra Marco Polo, bambini, nomadi, cavalieri templari che battono le rotte di terra: il deserto, Gerusalemme. Visioni: “Gerusalemme rossa di sangue e verde di olivi”. E l’ingresso dell’organo, dell’epica, dell’abbraccio al nulla che in fondo è il mistero d’amore del viaggio di Marco Polo in Oriente. Nostalgia di epoche passate sono tradotte in nuove arie, è appena il 1250 d.C..
Si è giunti dunque in “Oriente” di note e di fatto, e la decostruzione della forma canzone occidentale, le contaminazioni orientaliggianti (“dove concentra in pochi minuti tutte le sonorità differenziate e i linguaggi apolidi che transitano nelle orecchie del grande esploratore” come sottilineato da John Nicolò Martin), palpitano in un circo di nuovi odori, sapori, visioni, con un incipit elettrico che sa di Van Halen, più che di Giurato, e dura pochi attimi. E’ la fine dell’orientamento, la “teoria” si chiude. Sta iniziando “La crescita”,  seconda parte del disco, introdotta da una voce fuori campo, in inglese, che legge le rotte del padre e dello zio, ombra sul destino del figlio, che torna bambino per nuovi brevi secondi, con in sottofondo una lenta ballata in lingua inglese appena percepibile.

“E dal deserto armeno e dalle sue paure
Marco trae la forza
e ne deserto armeno e nelle sue paure
Marco cresce più in fretta”

L’alba, declamata in quattro versi, dell’uomo Marco Polo, inizia “Nel Deserto Armeno”, e “la meta è vicina. Ora c’è solo da oltrepassare l’infinito deserto armeno, luogo dove tutto passa: gli eroi, le malattie, le guerre, le delusioni e le primavere. E ci passa incolume. Di fronte a tanto coraggio, pure il crudele e magnifico Khan si scioglierà abbracciandolo”. Ma non è questa la fine del Marco privato ed intimo: le musiche baldanzose, anzi, ed il rilanciato ossessivo ripetersi di frasi identiche tra loro, denotano il passaggio di stagioni sempre eroiche e sempre in luoghi diversi, ma con dinamiche non dissimili. Marco è ora un uomo in bocca al mondo, senza voli Ryanair per tornare a casa quando la paura è troppa.

“Poi soffrirà per motivi di valanga
e si risveglia nel mistero
guarda Marco guarda quanto fumo
la pianura ai suoi piedi basta scendere dai monti
fino al Grande Khan, che dorme, che dice
“A morte, a morte, a morte,
a morte che è diviso
a morte chi ha tradito
a morte chi si è ribellato
al Grande Khan della Cina”
così lontana da te, Babbo”

Un suono di tempesta apre “Il Grande Kahn”, leggendario e terribile imperatore della Cina che prese Marco Polo alle sue dipendenze facedolo diventare, come “Il Milione” vuole, informatore, ambasciatore, governatore. É l’inizio della grande avventura a terra, da diplomatico, ma soprattutto da esploratore, di Marco Polo, un’avventura destinata a durare venticinque anni, fino al 1292 quando deciderà di tornare a casa tra le braccia dell’amata Monica, “donna del Sud” oggetto d’un amore fatto di “piccoli baci e grandi tormenti”, rientrandovi effettivamente dopo tre anni di navigazione, verso il porto paterno, la sua Venezia, e  dove troverà inaspettatamente la prigione, dove conoscerà Rustichelli di Pisa, il curatore delle sue avventure, che darà alle stampe il suo racconto di viaggio, giunto sino a noi intatto lungo settecento anni, alla cui diffusione Marco Polo una volta uscito di cella si dedicherà.

“Marco la ama
Come sa amare Venezia
Un amore profondo
E leggera tristezza
Le prende la testa come se lei avesse sete
E le stelle oltre il muro
Sono un fatto sicuro
Per chi non ha gli occhi stanchi”

“Marco e Monica”, dove Monica è “il morbido del mondo”,  quel mondo a cui Marco ha consacrato la propria vita e che conosceva bene “È una canzone così straordinariamente passionale che compensa l’ascoltatore di tutte le fatiche investite in un ascolto non solo affascinante, ma anche complesso e a tratti stridente”. Lo compensa come il viaggio di ritorno, riabbracciando il già visto, denota l’entità dell’impresa, di ciò che ci si è lasciati dietro, ciò che ci si è andati a prendere. Un delicatissimo arpeggio di chitarra, accompagnato languidamente dal ritorno dell’armonica, scivolano sotto la passione poetica del testo e del canto di Flavio Giurato. É il ritorno di Marco Polo a prua, come all’andata, il medesimo orizzonte ora è rovesciato, il viaggio compiuto, sfiorano i ricordi, che ondeggiando gravidi di dolcezza come barche debolmente ancorate ad un piccolo molo nell’ora del crepuscolo. In altre parole, una canzone d’amore purissima, suggellata dall’organo finale su cui si innestano voci che paiono di marinai, o forse di guerrieri. Tanti sono gli uomini incontrati dall’esploratore tante le possibilità di metamorfosi musicante del canto di Giurato.

“Marco guarda il mare
resta ad aspettare”

Arriva la nona ed ultima traccia, “Marco Polo”. Il piano suona mima il rumore di onde che si scavalcano, cavalcando l’orizzonte, mirando una spiaggia su cui spegnersi. Li c’è un uomo che le osserva.
Quell’uomo è Marco Polo. Un tumulto, come tanti ne avrà vissuti Marco Polo dal suo ritorno fino al 1324, data della sua morte. Il tumulto di stare a riva, su una spiaggia, e sapere di aver varcato tutto ciò che appare all’orizzonte, di aver già vissuto quel suo sogno che lo ha portato a scoprire il mondo. É l’attesa di un nuovo sogno altrettanto grande, che non arriverà. È un tumulto che bagna gli occhi, che viene cantato con urla di vera disperazione. Restano le urla di Giurato, lo sciogliersi degli ultimi rintocchi di piano: l’estati dolente di Marco Polo è sciolta, così come l’ascolto di quest’opera. L’autore ha scelto di cantare il dolore dell’esaurirsi del sogno, l’impossibilità d’una completa esperienza delle infinite possibilità della vita.
Henri Michaux descrisse con una poesia questo momento d’una anima intenta ad osservare se stessa, e chissà che Marco Polo non provasse esattamente questo, mirando l’orizzonte instancabile:

Tu vai,senza me,mia vita.
Tu scorri,
e io nemmeno ho fatto un passo.
Tu volgi altrove la battaglia
così mi diserti.
Io non t’ho mai seguito.

Non vedo chiaro nelle tue offerte
quel poco che vorrei tu non lo porti mai.
Per questa mancanza io aspiro a tanto
a così tante cose quasi all’infinito…
Per quel poco che manca e tu non porti mai.

È difficile dire cosa Marco Polo inseguisse. Flavio Giurato ha inseguito la dimensione umana di questo eroe del Sogno Assoluto (pare in seguito alla visione della serie di Giuliano Montaldo degli anni ’80 sui viaggi dell’esploratore), ha fatto coincidere la propria ferita con quella dell’esploratore veneziano e vi ha scoperto la perfetta aderenza. Marco Polo è un uomo. “Marco Polo è bello, Marco Polo è amore” ed è il simbolo di questa poesia imperfetta di nove canzoni, che non hanno al loro interno la traccia killer alla “Tuffatore”, ma che prelidigono una compatezza maggiore e hanno una veste narrativa così efficace da far passare in secondo piano le musiche.
“Marco Polo” è una zattera gettata nell’oceano della canzone italiana, invisibile a qualsiasi radar e lontana da qualsiasi compromesso sulla rotta, e che, come il protagonista che evoca, non ha interesse a giungere in nessuno specifico porto, ma quello d’esser vento di se stesso e di toccare tutte le cose.
“I nuovi marinai già tirano le funi”, ed è proprio questa la grandezza di Marco Polo per Flavio Giurato: aver vissuto l’epica d’una condizione tutt’altro che epica, quello d’esser un uomo come tanti, un uomo destinato a morire e lasciar spazio a nuovi uomini in uno spazio/tempo che gli sopravvive ed a cui ha dedicato ogni fibra dei suoi gesti e sogni e con le sue visioni, viaggi e amori chiusi dentro al proprio cuore. Fino a che un giorno, qualcuno si è deciso a raccontare questa storia. E qualcun altro, poi, a musicarla, con questo disco.

Il disco fu un fiasco, perchè oltre ad estremizzare i contenuti cantautorali, ne estremizzò anche gli strumenti. Il pubblico non apprezzò, la propensione ai compromessi dell’autore era prossima allo zero e nell’Italia craxiana che iniziava le manovre per affondare, gli orecchi e l’attenzione si volsero verso altri tipi di musiche e personaggi. Iniziò così il silenzio artistico di Flavio Giurato.
Così ha magistralmente scritto di lui Claudio Orlandi: “Guardate un uomo che suona le sue gambe masticando l’aria. Si muove da sé. Sono mascelle portentose che tirano le funi del proprio corpo per farlo riscaldare e risuonare. Così nasce un gioco che può insegnare l’importanza di non essere visti pur essendo estremamente presenti” e di testimoniarci tutti, con una manciata di canzoni su un incredibile viaggio di più di settecento anni fa, narrato con una esposizione poetica così onesta da sottolineare che se Marco Polo fu un grande esploratore del Mondo, Flavio Giurato lo è del cuore e delle umane passioni e questo disco è la sua Grande Cina, da cui fu difficile per entrambi far ritorno. È risaputo: i cani sciolti non amano i recinti.
Per fortuna che “sotto l’asfalto c’è la sabbia”

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2 risposte a Flavio Giurato – Marco Polo

  1. Sergio ha detto:

    Gran bella recensione davvero, per un disco (che sto ascoltando adesso) che non smette mai di stupirmi. Non perdonerò mai all’industria discografica aver estromesso Flavio, che aveva ancora molto, molto da dire.

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